Il primo stato d’assedio fu proclamato in Sicilia nel 1862; ed esso,
come disse Crispi, lasciò terribili tracce.
Nell’anno seguente, si ebbe di fatto il secondo stato d’assedio con
la missione del generale Govone il quale apertamente violò le leggi
dello Stato.
Sotto il generale Govone, per combattere i renitenti alla leva, i
Comuni siciliani venivano cinti da cordoni militari o presi
addirittura d’assalto; senza mandato di cattura venivano arrestati
sindaci e consiglieri comunali; venivano presi ostaggi, comprese le
donne incinte, una delle quali (Benedetta Rini, di Alcamo), quasi al
termine della gravidanza, morì in carcere dopo quattro giorni di
convulsioni. Fu persino applicata la pena dell’acqua!
E quanti innocenti furono martoriati! Un disgraziato operaio,
Antonio Cappello, sordomuto dalla nascita, venne sottoposto alla
tortura nell’Ospedale Militare di Palermo, come se fingesse d’esser
muto e sordo per sottrarsi al servizio militare: sul suo cadavere si
poterono contare 154 bruciature fatte col ferro rovente!
Tutti questi sono fatti. Fatti documentati. Basta sfogliare il libro
di Zingali: “ Liberalismo e fascismo nel Mezzogiorno d’Italia”,
volume primo, da pagina 232 in poi: ci troverete questo ed altro! E
non è un separatista che scrive, badate, ma un fascista il quale è
stato persino segretario federale!
Nel 1866 la pazienza finì. Il popolo di Palermo si ribellò come un
solo uomo.
“Una masnada di ladroni ha governato per sei dolorosissimi anni la
patria nostra. Una masnada di uomini feroci l’ha insanguinata”: così
incominciava il proclama rivoluzionario del 1866.
Nella città e nella provincia di Palermo, la rivoluzione assunse,
dal 16 al 22 settembre, proporzioni tali, da costringere il governo
ad inviarvi sollecitamente, con la qualità di Regio Commissario, il
generale Raffaele Cadorna, alla testa di due divisioni di fanteria,
un reggimento di cavalleria ed una brigata di artiglieria.
E vinsero loro, i ladri e gli assassini del popolo. Fucilarono senza
processo migliaia di cittadini. Mentre invece gli insorti siciliani,
che avevano preso prigionieri duemila soldati, non avevano ad essi
toccato un capello.
“Repressa la rivolta e ristabilito l’ordine, le cose continuarono
come prima. Non una legge fu votata, non un provvedimento fu preso
per portare qualche rimedio ai mali esistenti, che andavano
continuamente aggravandosi”. Sapete chi scrive queste parole? Non un
separatista; ma dei bravi fascisti, unitari, Libertini e Paladino, a
pagina 752 della loro “ Storia di Sicilia” pubblicata appena dieci
anni fa.
Nel 1875 le cose continuavano a peggiorare. Il governo italiano
propose misure eccezionali di polizia contro la Sicilia. I deputati
siciliani insorsero. Ascoltate quel che disse Paolo Paternostro:
“Voi parlate delle condizioni eccezionali in cui si trova la
Sicilia, del malcontento che vi regna. Ma, domando io, voi che cosa
avete fatto per la Sicilia? Cosa ha fatto il governo? Nulla. O tutto
il contrario di quel che doveva.
Se voi date un’occhiata a tutti i servizi della Sicilia, a tutte le
amministrazioni, voi troverete che dappertutto, e sempre, il governo
si è condotto male.
Sceglierò qualche esempio.
Sapete voi come è stata trattata la magistratura in Sicilia?
Quando ci sono stati i pretori che non hanno voluto secondare gli
ordini dell’autorità politica, sono stati minacciati, talvolta
traslocati.
E dei nostri impiegati (altro esempio) che cosa ne avete fatto? Ve
lo dirò in due parole.
Quando voi spedite in Sicilia qualcuno, voi fate supporre che lo
mandate per castigo, come se lo mandate in esilio, e gli dite: –
Andate laggiù, andate in Sicilia; poi, se vi comporterete bene, se
sarete zelante, allora provvederemo.
Questi signori vanno laggiù coll’idea di trovarsi in mezzo a gente
che non valga la pena di dover rispettare come tutto il resto
d’Italia; e fanno dello zelo eccessivo; e diventano spesso agenti
provocatori; ed accrescono il malcontento.
E dei nostri impiegati di laggiù, degli impiegati siciliani, che
cosa ne avete fatto? dei piccoli impiegati, soprattutto?
Perché a un vostro prefetto è saltato in capo di fare un rapporto
più o meno insolente e offensivo per la Sicilia, voi credete sul
serio che molti disordini si debbano alla così detta mafia, che si
sarebbe infiltrata tra gli impiegati, e ... botte da orbo,
traslocazioni, sbalzando gente con uno stipendio di fame in lontani
paesi, senza neanche indennità di viaggio, spostando e rovinando
tutti i loro interessi.
Che ne avete fatto delle nostre ferrovie? E delle nostre strade
obbligatorie? E dei beni dei Gesuiti e dei Liguorini, che erano
destinati alla pubblica istruzione?
Nelle nostre amministrazioni non c’è che il disordine, il caos. E le
popolazioni si abituano a pensare e a dire: – Ma questo non è un
governo; le imposte se le fanno pagare; il fiscalismo ci perseguita
sotto tutte le forme, ci assedia e ci tortura; ma quando si tratta
di amministrare, amministrazione non ce n’è.
Che cosa si fa? Si
ricorre a mezzi eccezionali di polizia, si ricorre al governo
militare, invece di migliorare economicamente il paese!”.
Ecco quel che gridò in Parlamento il deputato siciliano Paolo
Paternostro. Le sue parole sembrano scritte oggi. E tutti noi
siciliani, oggi, potremmo gridarle al governo fascista. Ma del
governo fascista parleremo tra poco.
Dopo Paternostro parlò, nello stesso senso, Colonna di Cesarò. Poi
Diego Tajani. Quest’uomo, patriota, esule e volontario delle guerre
d’indipendenza, era stato dopo il 1860 Procuratore Generale alla
Corte d’Appello di Palermo. E poiché era un uomo onesto e senza
paura, aveva sentito il dovere di spiccare mandato di cattura contro
il questore di Palermo, e di mettere sotto processo il prefetto di
Palermo, colpevoli ambedue di abominevoli abusi. Il governo,
naturalmente, si era messo contro di lui. Egli aveva dato subito le
dimissioni chiudendosi in uno sdegnoso silenzio.
Eletto deputato, fu più tardi per due volte Ministro di Grazia e
Giustizia. Orbene, quando vide che la Sicilia veniva nuovamente
provocata e calunniata, Diego Tajani non seppe più tacere.
Per due giorni, innanzi al Parlamento esterrefatto, espose l’una
dopo l’altra tutte le ingiustizie, le canagliate, le infamie di cui
il governo italiano si era macchiato: stupenda requisitoria che
tutti i siciliani dovrebbero imparare a memoria!
Concluse con questo avvertimento solenne: Ricordatevi che la Sicilia
è un’isola, e le isole si considerano come qualcosa di distaccato,
di autonomo!
Parole sprecate! La legge contro la Sicilia fu approvata. E nuove
violenze si abbatterono sulla nostra disgraziata patria.
La Sicilia è stata sempre considerata come terra nemica, terra
conquistata, da conservare con la forza. Per questo motivo, nel
1875, si tenevano in Sicilia ventitré battaglioni di fanteria e
bersaglieri; due squadroni di cavalleria; quattro plotoni di
bersaglieri montati; 3.130 carabinieri e numerose altre forze
sussidiarie, fra le quali principalmente guardie di pubblica
sicurezza e guardie a cavallo!
Si giunse così ai Fasci siciliani dei lavoratori, fondati e diretti
da Giuseppe De Felice. Che cosa voleva la Sicilia nel 1893 – 94?
Quel che ha sempre voluto: giustizia e libertà.
Il governo presieduto da Giolitti, riversò nell’isola una
moltitudine di soldati, i quali non fecero che accrescere il
malumore nel popolo.
L’inevitabile accadde: sul principio del 1893, uno scontro ebbe
luogo a Caltavuturo tra la folla e la truppa. La truppa osò sparare
sui pacifici paesani, un gran numero dei quali rimasero uccisi.
Promise Giolitti di far aprire un’inchiesta contro i militari che
avevano fatto fuoco; ma non mantenne. Al contrario, durante l’intero
anno, lasciò che la polizia e l’esercito si abbandonassero a tutti
gli eccessi: nelle giornate di dicembre, che furono particolarmente
accanite, più di 200 siciliani vennero uccisi, mentre la forza
pubblica ebbe un solo morto.
Vedendosi assassinati, i siciliani insorsero dappertutto.
Ruppero fili telegrafici; incendiarono municipi, preture, esattorie,
uffici del registro e del catasto, agenzie delle imposte, archivi
notarili, casotti daziari; liberarono i carcerati; tentarono di
disarmare carabinieri e soldati.
A questo punto, il Re concepì la mostruosa idea di affidare a un
siciliano la repressione del movimento siciliano. Crispi accettò la
parte di Caino.
Proclamò lo stato d’assedio; e nominò commissario straordinario con
pieni poteri il generale Morra Di Lavriano, che pochi giorni prima
aveva mandato a Palermo come prefetto.
Venne richiamata alle armi la classe del 1869; e più di 40.000
uomini vennero sbarcati in Sicilia. I capi del movimento furono
gettati in carcere: e primo fra tutti De Felice che, essendo
deputato, non poteva neppure essere arrestato senza l’autorizzazione
della Camera. I Fasci siciliani dei lavoratori (che erano ormai 166
con 300.000 associati) furono sciolti e le loro sedi occupate
militarmente. Proibiti gli assembramenti e le riunioni. Istituita la
censura.
Per più di sette mesi la Sicilia fu sottoposta alla legge marziale.
Gli arresti si facevano senza bisogno di prove. E le condanne
venivano appioppate, il più delle volte, senza che gli accusati
potessero neppure difendersi.
Le accuse, del tutto immaginarie. “Avere cooperato alla
emancipazione materiale e morale dei lavoratori” era un reato
severamente represso!
Nel giugno 1894, più di 1800 siciliani erano stati già condannati al
domicilio coatto. Molti, a pene più gravi. De Felice a 18 anni di
carcere, Bosco, Barbato e Verro a 12 anni.
Alla Camera dei Deputati, Felice Cavallotti dichiarò che il governo
aveva violato le leggi e lo stesso Statuto. Poi prese la parola
Matteo Renato Imbriani:
“Voi (disse rivolto a Crispi) avete stracciato ad una ad una tutte
le pagine dello Statuto. Avete fatto scempio di tutte le nostre
libertà…
Ci sono molti che dicono: – I Borboni bombardavano. – Ma
bombardavano quando una città era in piena ribellione. Ma i Borboni
non hanno mai fatto tirare sopra folle inermi ed affamate…”.
La Sicilia elesse deputati De Felice, Bosco e Barbato, che
languivano in carcere. L’elezione, si capisce, venne annullata.
Così continuarono le cose, male sempre, fino alla guerra. Dal 1915
al 1918 anche e soprattutto in Sicilia i contadini e gli artigiani,
i professionisti e gli studenti vennero strappati dalle loro case e
mandati al macello.
Ma quando la guerra finì, chiedemmo la resa dei conti. E l’avremmo
ottenuta, per Dio! se questo miserabile governo fascista non avesse
rinnovato un sistema di poliziesca tirannide sopprimendo le ultime
libertà e raddoppiando le nostre catene.
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