ROSA FRESCA AULENTISSIMA 1252 Vincenzo d'Alcamo scrive in SICILIANO |
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I L C O N T R A S T O DI CIELO D’ ALCAMO SECONDO LA LEZIONE DEL CODICE VATICANO 3793 |
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PUBBLICATO PER CURA DI GIUSEPPE SALVO COZZO SCRITTORE DELLA VATICANA ROMA, MDCCCLXXXVIII AVVERTENZA Qual’ è la lezione, non che piace più a me, non che si affaccia più allettatrice alla mia mente, ma che nasce spontanea dalla lettura di questo o di quel codice e che poté originariamente uscire dalla penna dell’ autore? Ecco la domanda che un editore non materiale di antiche scritture dovrebbe fare sempre a
se stesso; ecco la domanda che avrebbero dovuto fare a loro stessi gli
editori del Contrasto dell’
antico poeta alcamese, si chiami egli Ciullo, Cielo od anche Celio, come
preferiva scrivere monsignor Colocci. E veramente se i critici ed i
filologi (messe un po’ da parte certe loro fisime intorno ad una troppo
estesa trasformazione delle antiche rime siciliane nel dialetto toscano),
si fossero dati la pena d’ investigare e di comprendere alcune frasi ed
alcune parole che sono proprie della parlata siciliana ; si sarebbero
evitate molte controversie ; né le ricerche sulla città di Bari e sulla
discendenza del Saladino, sarebbero, dopo tanto battagliare, svanite Qual
fumo in aere, od in acqua la spuma. Il professore Alessandro D’ Ancona, al quale tanto debbono gli studiosi per i suoi dotti lavori sulla letteratura italiana dei primi secoli; fece un gran passo innanzi con la pubblicazione del Contrasto sull’ unico codice che ne rimane ; e corresse, da par suo, quasi tutti gli arbitrj onde, chi più chi meno, si erano resi colpevoli gli antichi editori. Egli però non ebbe piena fiducia nella lezione del codice vaticano, che molti ritengono poco conforme al dettato originale del preteso travestimento dei copisti ; e la sua edizione, risentendo un po’ dei dubbj di chi la curava, lasciò ancora qualche cosa a desiderare. Né a questo desiderio si può dire che abbia pienamente soddisfatto il chiaro professore Ernesto Monaci con le tavole eliotipiche da lui pubblicate. Le quali, se ci offrono il vantaggio di metterci sotto gli occhi la riproduzione esattissima del codice vaticano, nelle carte contengono il Contrasto ; non però c’ insegnano il modo di leggerlo, in tempi in cui la scrittura non procedeva ben distinta, e preposizioni, articoli segnacasi, si scrivevano tutti d’ un pezzo col nome loro. Fatte queste premesse, io non credo di dovere spendere altre parole per dimostrare le ragioni di questa nuova edizione, che ho condotta secondo i criteri critici da me annunziati, e che affido al giudizio degli studiosi. Biblioteca Vaticana, 20 Gennaio 1888 IL CONTRASTO DI CIELO D’ ALCAMO
I. Rosa fresca aulentissima, c’apar’ inver la state, Le donne ti disiano, pulzelle, maritate. Tràmi d’este focosa, se t’este a bolontate Per te non aio amento notte e dia, 5 Penzando pur di voi, madonna mia. II. Se di meve trabalgliti, follia lo ti fa fare. Lo mar potresti arompere, avanti asemenare; L’abere d’esto secolo tuto quanto asembrare; Avere me nom poteria esto monno; 10 Avanti li cavelli m’aritonno.
III. Se li cavelli artoniti, avanti foss’io morto ; C’aisi mi perdèra lo solaccio e lo diporto. Quando ci passo e veioti, rosa fresca de l’orto. Bono comforto donimi tut’ore : 15 Poniamo che s’aiunga il nostro amore.
IV. K’ el nostro amore aiungasi nom boglio m’atalenti ; Se ci ti trova pàremo colgli altri miei parenti, Guarda non t’argolgano questi forti corenti. Como ti seppe bona la venuta, 20 Consiglio che ti guardi a la partuta.
V. Se ‘n tuoi parenti trovami, e che mi pozon fare? Una difemsa metoci di dumilia agostari. Viva lo ‘mperadore! Graz’a Deo, 25 Intendi, bella, quello ti dico eo Non mi tocàra pàdreto per quanto avere ambàri. Anche questo benedetto verso ha dato modo da dire agli eruditi per la parola ambàri che vi si legge. Passandomi di coloro i quali, da qualche proverbio siciliano o da qualche forma proverbiale siciliana, vorrebbero argomentare che ivi si possa leggere ammàri; e passandomi pure dell’ opinione del CORAZZINI che propone di leggere: à n Nari (bel paese, affè mia, e ricco d’ ogni ben che la terra fertile mena!), è certo però che la lezione più comunemente accettata, è quella di a ‘m Bari. Il prof. D’ OVIDIO in un dotto lavoro pubblicato sulla Nuova Antologia (I° marzo 1882), conforta la lettura di à ‘m Bari, con alcuni esempj di frasi iperboliche tolte dal poema spagnuolo del CID ; ed il prof. A. D’ ANCONA dedica tutto il cap. VI del suo magistrale studio sulla Rosa fresca aulentissima, a ricercare ed a spiegare le ragioni per le quali il poeta abbia potuto nominare la città di Bari. A me però codeste ragioni non entrano ; sia che l’ “avere” si riferisca alla città di Bari, sia invece si riferisca al padre della donna; e non entrano, come dimostrerò, per la contradizion che nol consente. E, per prima cosa, non bisogna dimenticare che noi abbiamo sotto gli occhi un Contrasto, un vero e proprio ludo poetico, nel quale, com’ è naturale, ciascuno dei contendenti deve trovar modo di sopraffar l’ altro, esagerando al possibile le proprie virtù e le proprie ricchezze, anzi gridandogli in faccia la propria superiorità sopra ogni cosa. Quanto alla prima interpretazione che l’ “avere” possa riferirsi alla città di Bari, ricca nel trecento di traffici e conservatrice del tesoro di San Niccolò, io la rifiuto addirittura ; perché, se posso comprendere un amante che, minacciato dell’ ira dei parenti, dica alla bella: Io non ti lascio per tutto l’ oro del mondo od anche di Bari ; non posso comprendere un amante che risponda per sua difesa : Tuo padre non mi toccherà per tutte le ricchezze che sono in Bari. Quanto poi alla seconda interpretazione che l’ “avere” possa riferirsi al padre della donna, avremmo, se venisse per un momento accettata, il caso abbastanza strano di un duellante che si dia per vinto al primo incrociar del ferro, riconoscendo fin dal principio nella famiglia della donna ricchezze che, per la natura stessa della poesia, dovrebbe con ogni suo mezzo negare. Scartate così queste due interpretazioni, io credo, senza andar cercando il nodo nel giunco, e senza cambiare un ette alla lezione del codice vaticano (fatto credere fin oggi più scorretto di quello che veramente non sia), che noi abbiamo nella voce ambàri, né più né meno, che la seconda persona singolare del presente indicativo del verbo amparàri; verbo siciliano, sicilianissimo che significa appropriarsi (prov. amparar; franc. s’ emparer), e che fin dal 1519 LUCIO CRISTOFORO SCOBAR, canonico siracusano e discepolo di ELIO ANTONIO da vibrissa, registrò nel famoso vocabolario latino, spagnuolo e siciliano, del quale fu scritto: Quisquis amal voces Latiae conoscere linguae Hispanoe et Siculae, perlegal istud opus. Ed eccoci così nella piena vivacità del Contrasto. L’ amante dice alla bella : Tuo padre non mi toccherà per quante ricchezze tu ti approprj, per quante ricchezze tu vanti di avere; e la bella, punta sul vivo, quasi si mettesse in dubbio l’ esistenza dei suoi beni di fortuna, gli risponde di punto in bianco: Donna mi son di perperi, con quel che segue.
VI. Tu me no’ lasci vivere, né sera, né maitino: Donna mi son di perperi ; d’auro mass’amotino. Se tanto aver donassemi, quanto a lo Saladino, E per aiunta quant’a lo Soldano, 30 Tocare me nom poteri a la mano.
VII. Molte sono le femine c’ànno dura la testa, E l’omo com parabole l’adimina e amonesta. Tanto intorno percazala fin che l’à in sua podesta. Femina d’omo nom si può tenere. 35 Guardati, bella, pur de ripentere.
VIII. K’eo me ne pentesse? davanti foss’io aucisa. Ca nulla bona femina per me fosse ripresa. Er sera ci passati, corenno a la distesa. Aquistiti riposo, canzoneri ; 40 Le tue paraole a me nom piaccion gueri.
IX. Doimè! quan’ son le schiantora che m’à mise a lo core. E solo purpenzànno maladia quanno vò fore ; Femina d’esto secolo tanto non amai ancore, Quant’amo teve, rosa invidiata. 45 Ben credo che mi fosti distinata.
X. Se distinata fosseti, caderia de l’alteze, Chè male messe forano in teve mie bellezze. Se tuto adivenissemi, talgliàrami le treze, E comsore m’ arenno a una magione 50 Avanti che m’artochi ‘n la persone.
XI. Se tu consore arenneti, donna col viso cleri, A lo mostero vènoci e rennomi comfleri. Per tanta prova vencierti, faràlo volonteri. Con teco stao la sera e lo maitino ; 55 Bensogne ch’io ti tenga al meo dimino.
XII. Boimè tapina misera, com’ao reo distinato! Gieso Christo l’altissimo del toto m’è airato. Conciepistimi a abattere in omo blestiemato. Cierca la terra ch’este granne assai ; 60 Chiù bella donna di me troverai.
XIII. Ciercat’aio Calabra, Toscana e Lombardia, Puglia, Costantinopoli, Gienoa, Pisa, Soria, Lamangna e Babilonia, tuta Barberia ; Donna non trovai tanto cortese, 65 Per Dea sovrana di meve te prese.
XIV. Poi tanto trabagliasti, facioti meo pregheri. Che tu vadi adomànimi a mia mare e a mon peri. Se dare mi ti dengnano, menami a lo mosteri, E sposami davanti da la iente. 70 E poi farò le tuo comannamente.
XV. Di ciò che dici, vitama, neiente non ti bale, Cà de le tue parabole fatto n’ò ponti e scale. Penne penzasti metere, sonti cadute l’ale, E dato t’aio la bolta sotana. 75 Dunque, se poi, teniti villana.
XVI. En paura non metermi di nullo manganello : Istomi ‘n esta groia d’esto forte castello. Prezo le tue parabole meno che d’un zitello. Se tu no’ levi e vàtine di quaci. 80 Se tu ci fosse morto, ben mi chiaci.
XVII. Dunque voresti, vitama, ca per te fosse strutto?Se morto essere dèboci, od intagliato tutto, Di quaci non mi mòsera se non ài de lo frutto, Lo quale stao ne lo tuo jardino 85 Disiolo la sera e lo matino.
XVIII. Di quel frutto non àbero conti, né cabalieri, Molto lo disiano marchesi e iustizieri : Avere nonde pòttero ; gironde molto feri. Intendi bene ciò che bole dire : 90 Men’este di mill’onze lo tuo abere.
XIX. Molti son li garofani, ma non che salma nd’ai. Bella, non dispresgiaremi s’avanti non m’assai. Se vento è im proda e girasi e giungieti a le prai, A rimembrare t’à este parole : 95 Ca dentra sta animella assai mi dole.
XX. Macera se doleseti che cadesse angosciato!La giente ci coresoro da traverso e dallato. Tut’à meve diciessono : Acori esto malnato! Non ti dengnàra porgiere la mano 100 Per quanto avere à ‘l Papa e lo Soldano.
XXI. Deo lo volesse, vitama , ca te fos morto in casa!L’arma n’anderia cònsola, ca di e notte pantasa. La iente ti chiamàrano : Oi periura malvascia, C’à morto l’omo in casata, traita! 105 Sanz’onni colpo, levimi la vita.
XXII. Se tu no’ levi, e vàtine co la maladizione, Li frati miei ti trovano dentro chissa magione. Be’ lo mi sofero perdici le persone, C’à meve se’ venuto a sormonare. 110 Parente e amico non t’ave aiotare.
XXIII. A meve non aitano, amici né parenti. Istrani mi son, càrama, enfra esta bona iente. Or fa un anno, vitama , ch’entrata mi se ‘n mente Di canno ti vististi lo ‘ntaiuto. 115 Bella, da quello iorno son ferito.
XXIV. Ai! Tanto ‘namorastiti, juda lo
traito, Como se fosse porpore, iscarlato o sciamito! S’a l’evangiele iurimi, che mi sia a marito Avere me nom pòtera esto monno. 120 Avanti in mare itomi al profondo.
XXV. Se tu nel mare gititi, donna cortese e fina, Dereto mi ti misera per tuta la marina. Poi c’anegaseti, trobarèti a la rena. Solo per questa cosa adimpretare : 125 Con teco m’aio a giungiere a pecare.
XXVI. Sengnomi im Patre, en filio ed ia Santo Mateo! So ca non se’ tu retico, figlio di Giudeo, E cotale parabole non udi dire anch’eo. Mortasi la femina a lo ‘ntutto 130 Perdeci lo saboro e lo disdotto.
XXVII. Bene lo saccio, càrama, altro nom pozo fare. Se quisso non arcomplimi, lassone lo cantare. Fallo, mia donna, plàzati, chè bene lo puoi fare. Ancora tu no’ m’ami, molto t’ amo, 135 Si m’ai preso come ‘l pescie a l’amo.
XXVIII. Sazo che m’ami ; amoti di core paladino. Levati suso e vàtene, tornaci a lo matino. Se ciò che dico faciemi, di bon cor t’ amo e fino. Quisso t’imprometto eo sanza falglia : 140 Te’ la mia fede, chè m’ài in tua balglia.
XXIX. Per zò che dici, càrama, neiente non mi movo. Inanti prenni e scannami, tolli esto cortel novo. Esto fatto far potesi inanti scalfi un uovo. Arcompli mi’ talento, amica bella, 145 Chè l’arma co lo core mi s’infella.
XXX. Ben sazo, l’arma doleti com’omo c’ave arsura. Esto fatto nom potesi per null’altra misura. Se non a le Vangiele, che, mo ti dico, jura, Avere me nom puoi in tua podesta. 150 Inanti prenni e talgliami la testa.
XXXI. L’ Evangiele, càrama, ch’io le porto in seno, A lo mostero presile ; non ci era lo patrino. Sovr’esto libro iuroti, mai non ti vengno meno. Arcompli mi’ talento in caritate, Chè l’arma me ne sta in sutilitate.
XXXII. Meo Sire, poi iurastimi, eo tuta quanta incienno, Sono a la tua presenza, da voi non mi difenno. S’eo minespreso àoti, merzè, a voi m’arenno. A lo letto ne gimo a la bon’ora 155 Che chissa cosa n’è data in ventura. |